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Racconto 2
Susy Fiore
WERTHER
ovvero
La trappola dei “se soltanto...”
Attilius Geremia von Simmenthal aveva vissuto, o perlomeno così credeva, quello che nella sua mente era archiviato nella cartella intitolata G.A., ovvero Grande Amore.
All’epoca del loro primo incontro Aglaia Ivanovna Epančina era una giovane russa che studiava a Parigi. In seguito, innamoratasi di quella città, aveva deciso di stabilirvisi definitivamente.
Il loro idillio era stato per Attilius l’avverarsi di un sogno, il compimento di tutta una vita. Non così avvenne per Aglaia, troppo analitica e razionale per credere ad una passione totalizzante e abbandonarsi ad essa.
Attilius ricordava ancora i loro interminabili discorsi, mentre passeggiavano lungo l’Esplanade des Invalides tenendosi per mano. Lui le parlava dei propri sentimenti con foga inarrestabile. “Tu – le diceva – sei diventata tutto, per me. In te ho riversato ogni ideale, ogni sogno, ogni aspirazione della mia vita, tu sei il senso e il fine della mia esistenza. Perché tu sei ciò che ho sempre desiderato, sei il Vero Amore”.
“Oh, dorogusha, - rispondeva lei vezzeggiandolo con una punta d’ironia – lo vedi? Sei schiavo di un mito romantico, il Grande Amore, il Vero Amore, Amore e Morte........ ma lo vuoi capire che non siamo più all’epoca dello Sturm und Drang, e che fra uomo e donna oggi è tutto diverso.....!”
“Ma cosa, cosa è diverso – replicava Attilius incredulo e mortificato – “l’uomo è uomo e la donna è sempre l’oggetto del suo amore, questo non può cambiare!”
“Povero, povero amico mio – lo rimbeccava lei per metà indispettita e per metà intenerita – “come sei antico! La donna oggetto d’amore.... e trallallà trallallà ma la donna non ci sta, trallallà”.
Poi, facendosi seria, gli spiegava che non vi erano oggetti d’amore ma solo soggetti desideranti, e sillabava la parola per fargliela capire: de-si-de-ran-ti.
Gli diceva che quello che lui chiamava Amore era la proiezione reificata di un suo bisogno.
« Eeeh? » esclamava Attilius, non perché non capisse, o non sapesse che quelle idee provenivano da una concezione profonda e articolata delle relazioni umane.....sì, lui capiva, aveva studiato e discusso con gli amici quelle teorie, ma esse per lui rimanevano proprio soltanto teorie.
Il suo bisogno urgente, impellente, inderogabile era sentire una intima fusione con l’amata. L’intransigente donna, dal canto suo, lo rimproverava di non avere una propria vita e di aver riversato su di lei ogni aspettativa di realizzazione e di felicità, e sempre più spesso gli rinfacciava di vivere quasi “a rimorchio”. <<Se soltanto tu avessi una tua vita, dei tuoi amici, degli interessi personali.....>> esclamava sempre più spesso.
Questo, naturalmente, accresceva la frustrazione di Attilius e ne accentuava la dipendenza. «Se soltanto tu fossi più disponibile, accetteresti il dono di tutto il mio essere per quello che è, il dono più prezioso che si possa immaginare!» rispondeva, irritato.
Con il tempo Aglaia diventava sempre più distante. Ad ogni incontro nascevano nuove, interminabili, discussioni. Aglaia gli ripeteva la stessa cosa in mille modi diversi, ma con crescente impazienza.
«Non voglio negare il legame fra noi due, moy drug, ma renditi conto che fra noi due sono io che metto in comune i miei due elettroni come in un legame dativo, non è giusto e non lo sopporto più!...» Ormai lo chiamava moy drug, amico mio, e non più dorogusha, cioè tesoro.
Le cose fra loro si deteriorarono.
Aglaia conobbe un russo di nobili origini, Lev Nikolàevič Myškin con il quale instaurò una profonda amicizia. Costui era un uomo dal temperamento creativo e ipersensibile, dotato di una fervida immaginazione. Era un uomo instabile ma affascinante. Aglaia ne ammirò la fantasia, ne amò la sfuggente personalità, ne adorò il mistero.
Attilius vide crollare il monumento che aveva eretto al Grande Amore, scrisse un biglietto ad Aglaia «Se soltanto mi avessi ascoltato!». Poi si recise le vene dei polsi.
Passarono gli anni.
Attilius Geremia von Simmenthal era sopravvissuto al maldestro tentativo di suicidio, e viveva molto lontano da Parigi, in una casa famiglia il cui nome per esteso era Casa Famiglia per la Cura e la Prevenzione delle Dipendenze Affettive.
Dopo il suo gesto disperato il pover’uomo aveva avuto solo un ultimo colloquio con Aglaia, che gelidamente gli aveva intimato di non cercarla più.
«Ti cercherò» aveva replicato lui.
«Non ti parlerò, e se desideri morire fa’ pure, sarà una tua scelta» aveva sibilato lei.
Ora in comunità il nostro misero amico aveva ripreso una parvenza di vita, ma era sempre sconsolato e senza amore. Solo un educatore, un certo Beniamino Benton, gli dimostrava un po’ di comprensione.
I giorni passavano, o meglio, si ripetevano sempre identici.
I mesi implacabilmente replicavano il loro monotono scivolare via.
Ad Attilius Geremia von Simmenthal sembrava di vivere in un crudele esperimento di ibernazione, dove tuttavia solo una luce brillava ancora, il ricordo di aver vissuto un Grande Amore.
A nulla erano valse le sedute di psicodramma, i circletime, gli incontri di riorganizzazione cognitiva, gli esercizi di ristrutturazione emotiva, le ipnosi, le condivisioni in gruppo, il training autogeno, i brain storming, i role playing, il rebirthing, la mindfulness e il biofeedback.
Come in una specie di remake di “Arancia Meccanica”, il suo essere profondo rigettava ogni tentativo di condizionamento, e tornava all’unica dimensione per lui accettabile, cercare Aglaia - amare Aglaia - tornare a vivere per Aglaia.
L’unico suo pensiero era «Se soltanto........»
Decise che – se la vita era quel limbo putrescente di rimpianti – tanto valeva lottare ancora per il suo Unico Scopo. Giocarsi in un sol colpo quell’esistenza che un giorno aveva cercato di buttare via e cercare Aglaia un’ultima volta.
Avrebbe parlato con Beniamino Benton. Gli avrebbe dato appuntamento in un luogo neutrale, un bar magari, e gli avrebbe comunicato la propria decisione.
Fu così che Attilius e Benton si incontrarono, quel mattino, davanti a due birre spumeggianti.
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